Di seguito trovate il quarto episodio della serie di racconti scritti da Xeandra appositamente per Battlecraft e la Community Challenge 2011, tutti ambientati nelle Arene di World of Warcraft. Se volete leggere altro materiale realizzato da questa nostra amica, visitate la sezione Racconti del forum.

"Poichè colui che oggi verserà il suo sangue insieme al mio,
sarà mio fratello."

William Shakespeare

Fin da cucciolo, aveva amato la pesca.
Quel senso ineffabile di tranquillità, il lento e pigro scorrere del fiume sotto i suoi piedi, il tiepido riverbero del sole sulla pelle.
Stiracchiò mollemente le braccia, riponendo la canna e la lenza, contando, soddisfatto, almeno sei pesci.
Gash alzò gli occhi verso la volta celeste che già andava imporporandosi, il sole morire oltre l'orizzonte.
Per un momento, sulle sue mani si dipinse il macabro riflesso delle centinaia di vite che aveva spezzato, la Nera Signora lambirgli nuovamente gli argini della mente, richiamandolo alle sue antiche leggi.
Scosse la testa stizzito, le piccola dita della sua creatura sfiorargli il polso, infilandosi tra le sue.
"Papà..." pigolò una voce infantile "guarda cos'ho preso! Guarda!"
L'orco abbassò le pupille, leggermente dilatate, verso suo figlio che, orgoglioso, gli mostrava un bloodbelly rosso, grande quanto la sua faccia.
Un sorriso nostalgico sostituì il cipiglio contrariato di poco prima, la libertà prendere forma e consistenza proprio davanti a lui.
Una libertà tratteggiata nel sangue e nella carne.


Era sempre stato bravo: non eccellente, ma abbastanza forte e furbo da vincere gli incontri a cui lo sottoponeva Blackmoore.
Parava ed affondava con la stessa facilità con cui, un tempo, andava a caccia nei prati di Nagrand.
Eppure, alla fine di ogni giornata, sentiva le ossa scricchiolare ed i curatori impiegavano sempre più energie per rimetterlo in sesto.
Sospirò esausto, la spalla leggermente spostata di qualche centimentro.
La osservò con occhio critico, riassestandola con un colpo secco.
Era vecchio, lo sapeva.
La sua pelle era un ammasso di cicatrici cauterizzate dal fuoco nemico ed il suo spirito giaceva addormentato sul fondo delle membra.
Pharos gli aveva promesso una libertà che non sarebbe mai arrivata, ma a cui si era aggrappato tenacemente, il sogno di una compagna ed una vita normale inciso nella sua persona.
Fu per tutta questa serie di motivi, e forse altri ancora di cui non conosceva l'origine, che quella mattina, quando le mura di Durnholde Keep rieccheggiarono della furia vendicativa di un solo orco, si buttò nella mischia, tirando fuori ciò che il suo lignaggio chiamava a gran voce.

Gash non l'aveva visto arrivare, ma ne aveva percepito la presenza nel sangue che gli era colato sul mento.
"Tu non vai da nessuna parte" erano state le parole che avevano fatto da contorno ad un'arena in fiamme "tu morirai qui, come sarebbe dovuto essere anni fa."
Si rialzò barcollando, scansando a fatica il colpo successivo, il volto del suo allenatore una macchia confusa su di uno sfondo nero e rosso. L'aveva sempre detestato: di quell'odio che avvelena l'animo, rendendolo sterile e vuoto, invertendo la polarità dell'essenza naturale del rispetto.
Gli aveva fatto un giuramento che era solo menzogna, scorticando, un pò alla volta, i suoi sogni.
Digrignò i denti, caricando ed affondando il gladio nella carne debole della coscia.
L'uomo gridò, mantenendo tuttavia la posizione eretta e coprendosi il torace con lo scudo.
"Sei solo feccia!" aveva urlato Pharos ruotandogli attorno "voi tutti siete solo marciume che un mondo distrutto ha vomitato qui! Ed adesso, perchè uno di voi è scappato, pensate di poter essere liberi?" aveva riso, mantenendo l'iride smeraldina fissa sul suo avversario "Illusi. La morte è l'unica cosa che meritate."
Ed aveva attaccato.
Gash aveva scartato di lato, richiamando a sè l'istinto infallibile del secutor, parando la lama con lo scudo rettangolare e proteggendo la tibia. Perchè se c'era qualcosa che ti insegnava quella vita era che farsi colpire alle ginocchia equivaleva alla morte, l'incertezza buona solo per diventare carne da fottere.
Pharos lo fronteggiava risoluto, nei movimenti la sicurezza dei folli, le cui gesta si fondano ed esplodono nella caduta dei loro ideali.
Ma Gash voleva sopravvivere.
Sopravvivere e fuggire.
Calcolò bene la sua mossa successiva, sfruttando l'addestramento ricevuto e la conoscenza del suo esecrabile allenatore, un provocator dei più rinomati alla corte di Lordaeron.
Pharos aveva trattenuto il fiato, il pugno dell'orco colpirlo violentemente al petto, l'acciaio penetrargli tra le coste, divorando quel cuore che non aveva mai saputo di avere fino a quando non era stato trafitto.
"Ci rivediamo all'Inferno..." gli aveva scandito tetro estraendo il gladio.
E mentre la rena si disgregava sotto i suoi piedi, sfere incandescenti piovere sull'impiantito di un patibolo vestito d'altro nome, Gash aveva cominciato a correre, la libertà da lui tanto agognata un miraggio inaspettato, riflessa in occhi turchesi di schiavo e liberatore.
Quando il sole toccò lo zenit, della fortezza di Durnholde Keep non erano rimaste che pietre fumanti, minerali in cui tutto puzzava di decadimento e morte.
Gash volse lo sguardo verso colui che era nato nobile, diventanto gladiatore, ed infine salvatore di tutti loro.
Lo ascoltò con fervore, assorbendo ogni sua parola, quasi un assetato in mezzo al deserto, il vecchio ruggito dell'orco esprimersi nella gioia con cui tutti levarono le armi al cielo.
E le sue parole risuonarono degli echi antichi di un tempo che li aveva visti liberi.
Liberi ed incontaminati.

Carezzò i capelli corvini di suo figlio, lasciando che i suoi occhi si svuotassero dal sangue e dalle membra in cui era annegato tanto tempo fa da non saperlo più nemmeno quantificare.
Per chi aveva frantumato e distrutto vite, inseguendo un sogno che era avvampato in una mattina di primavera, la libertà significava lasciarsi alle spalle l'arena, con le sue scomode eredità.
Dimenticare le lacrime versate in silenzio, quella sensazione di impotenza in cui il pugno di Pharos l'aveva rinchiuso, le giornate passate ad allenarsi per uno scopo che non era nemmeno tuo.
Fornire alibi ad una razza che si divertiva a vedervi comportarvi come bestie, marchi sulla pelle per identificare un unico e solo padrone, la cui faccia coperta di biacca bianca assomigliava pericolosamente a quella della morte.
La libertà era un nucleo ribollente al centro del petto, quell'idea che rovista nella mente fino a renderla unica, ciò per cui mondi interi avevano perso il loro onore e la loro dignità.
E mentre si incamminava verso la città, posò lo sguardo su quello che l'arena aveva tentato di annientare, infangandolo con la sabbia di un teatro costruito sulle ossa ed i sogni amputati di bellator istruiti solo per asservire una puttana dalla falce uncinata.
Si è figli della propria storia e la sua era così lastricata da cadaveri da non poterli più nemmeno contare.
Ma se c'era una cosa che l'arena ti insegnava, ungendola con il sapore delle speranze cadute, era proprio ciò che tentava maggiormente di schiacciare sotto le sue unghie scarlatte.
Che per quanto tu ci possa provare, per quanto tu possa negare, incrociando le braccia al petto, quasi un limite da non valicare, la rena, con la sua cruda realtà, riporta in superficie ciò che tutti desiderano, arrivando persino a spegnere il futuro altrui.
Perchè anche dal fango più putrido può nascere un fiore di cristallo.
Che chiamano libertà.

Note

  • Il Provocator era una delle tante categorie gladiatorie dell'antica Roma. Aveva un equipaggiamento leggero e portava gli attacchi molto rapidamente. Il suo armamento consisteva in un'arma da taglio di media o corta lunghezza (tipo l'odierno pugnale o daga), tuttavia spesso utilizzava il pugio. Il suo equipaggiamento d'offesa si completava con uno scudo di forma rettangolare delle dimensioni di 70-80 cm x 40-50 cm. Indossava inoltre un elmo, una manica (protezione per il braccio che impugnava il pugio), uno schiniere sulla gamba sinistra, un cardiophilax (pettorina) e in alcuni casi anche cosciali. Il combattimento è molto simile a quello tra due pugili del giorno d'oggi, utilizzando le armi allo stesso modo dei pugni.
  • Il Secutor era un'altra categoria gladiatoria romana: indossava un elmo ovale dotato di piccolissime fessure oculari. Questa restrizione della vista lo proteggeva dal fatto che altri gladiatori potessero cavargli gli occhi. Le sue armi erano una spada corta e dritta (il gladius) come pure un grosso scudo rettangolare (lo scutum).
  • Bellator è il termine latino per "guerriero".

Statistiche: Inviato da Ligario — 10-06-2011 17:59 — Risposte 0 — Visite 14



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